By Eva Auerman
.
Digital Beauties è un volume edito da Taschen (in inglese, francese e tedesco, ISBN 978-3-8228-1628-8) così presentato: “The first book in our groundbreaking new series on digital culture focuses on beauty and cutting-edge computer-generated female characters.”
Una prima riflessione mi porta a pensare che ciò che noi facciamo in Second Life è, da un tempo ben precedente i nostri discorsi, considerato come attività artistica. Con il di più che le nostre creazioni non solo generano immagini, ma queste possono interagire tra di loro e con l’ambiente in una serie, piuttosto ampia, di attività.
Tra queste attività vi è quella di fruire di “arte”, come pubblico di un museo o come chi ascolta un concerto e pertanto mi viene subito un dubbio: gli avatar possono essere considerati pubblico nel senso classico del termine? A mio parere no, essi non potranno mai essere un pubblico così come comunemente è inteso. Ciò contribuisce solo a confondere questioni del tipo “il mio è un avatar vero” “il mio è quasi vero” “il mio è completamente stravolto” “il mio è come Scooby-Doo perché mi piace così” “il mio è un uomo…” “il mio è una donna…”
Credetemi, quando apprendo soprattutto queste ultime due “informazioni”, dentro di me rimbomba sempre la domanda: “Un uomo? Una donna?… Ma che dice?” Voglio subito specificare che so benissimo chi e cosa sono un uomo e una donna, pertanto, non credo sia sufficiente una fattezza maschile per fare un “uomo” così come ho la speculare convinzione che non sia sufficiente un avatar femminile per fare “una donna”. E ciò a prescindere che “dietro” l’avatar ci sia un maschietto o una femminuccia. Per questo sostengo che non ci sono questioni né di voice, né di cam, né di dati olfattivi evocati, il più delle volte, a sproposito.
Giustamente noi spendiamo parole in proposito ma un avatar, umano o non umano, è da tempo classificato una creazione artistica, il cui campo di indagine può infatti spaziare dall’intrattenimento alla realtà e spingersi a sondare il mistero. Ora, se l’intrattenimento è relativamente facile da configurare, già la realtà è più difficile inquadrarla nei suoi infiniti rivoli. Ma se le premesse sono confuse da discorsi sviati da pseudo questioni di identità e assortita etica consumistica d’intorno, il mistero è precluso in partenza all’esperienza. Aggiungo che non giova, alla chiarezza di idee, se -sottolineo se– dell’arte se ne fa una questione meramente espositiva, fornendo oltretutto ragioni all’intendere SL come luogo dove si vive soprattutto l’ansia di dire chi si è con tanto di nome e cognome, indirizzo e targa della propria auto. In questo caso si creano solo occasioni per avatar gironzolanti tra occupazioni variamente altre che la mia fantasia non basta ad immaginarle tutte.
Cosa intendo per mistero? Intendo il fatto che se per esempio tra due persone vi è “amore”, significa che queste persone accettano il loro reciproco mistero consistente in quello che si farà anche da soli nell’ambito della coppia, in relazione agli eventi che il futuro può comportare e che, per molti motivi, costituiscono un qualcosa di insondabile. Poi, certo, anche il passato contiene una sua insondabilità e questo lo racconta soprattutto il web, che è fitto di racconti di “passati”, altrettanto fittamente commentati.
Non vi è mai capitato di apprendere di amori naufragati perché un qualcosa, foss’anche una percezione, nel futuro materializzato in un presente, è inaspettata? A me è capitato e credo che, in quel caso, di amore non si trattava. Ecco perché dalla delusione si guarisce: perché la nostra elaborazione prima o poi ci porta a capire che si trattava di altro. Convenienza, feticismo, libido, narcisismo, controllo, invidia, gelosia, sadismo, masochismo e tante altre belle cose che siamo stranamente sempre convinti riguardino solo gli altri. O, peggio, i “perdenti”.
Cosa c’entra l’arte con tutto ciò? Centra perché ciò che non sappiamo vedere è l’arte che ha il compito di mostrarcelo, allargando la nostra capacità percettiva tramite “produzioni”. Ma negli attuali tempi ,quando ci scandalizziamo per tutto e dove “rivoluzionario” è indotto significhi paradossalmente affermare l’essere conformi. Come dobbiamo comportarci per allargare la capacità percettiva?
Oh, comprendo, dobbiamo tutelare il semplice che da tutto ciò è confuso. Sono certa che questa “tutela” è in genere solo funzionale al conformismo e, oggi, certamente prodigherebbe a banalizzare messaggi sferzanti come per esempio “L’origine del mondo” di Courbet, dipinto esposto nientemeno che al Museo D’Orsay al quale non mi stupirei se qualcuno troverebbe rivoluzionario “trasgredire” cercando di affermare che l’unica cosa comprensibile è la rappresentazione a colori della grisaglia che amiamo svisceratamente grazie all’educazione sentimentale tipica della nostra epoca che ci rende capaci di immaginare solo burocrazia.
Vedere qualcosa di simbolicamente altrettanto potente (che il gusto estetico avvezzo al porno può trovare difficile classificare in modo altro), nelle proposte che si fregiano della qualità artistica su SL, è pertanto impensabile. L’arte in SL dev’essere definita “seria” senza timore che così facendo si ricopre il discorso di un’indelebile patina di ridicolo che è percettibile anche se la definizione è espressa nelle segrete stanze. Avviene invece qualcosa di similmente efficace all’opera del XIX secolo nelle situazioni create da avatar senza nessuna dichiarata pretesa artistica, a volte inconsapevoli di proporre tematiche decisamente inquietanti.
La parola inquietante è per me una specie di garanzia che l’indagine si addentra nell’ attuale: non è forse inquietante l’alienazione subita dal lavoro intellettuale al cospetto dell’organizzazione imposta per renderlo funzionale alle macchine? Non è inquietante che la società si muova all’unisono, stimolata da problematiche iniettate da informazioni accordate, in senso musicale, a precisi modelli narrativi che avvolgono realtà e sogno di derivazione pubblicitaria? Non è inquietante che ci hanno resi spettatori di tutto, peraltro incapaci di distinguere la claque? Non è inquietante che le nostre energie si spendono per identificare metodi di “content marketing” e similari? Non è inquietante che pretendiamo lecito solo ridurre l’opinione ai “mi piace”, “non mi piace più”, “mi associo/dissocio”? Non è inquietante che esista una realtà rispetto alla quale Gillo Dorfles si esprime così:
“Quando assisto alla facilità vertiginosa con cui degli adolescenti, anzi dei bambini, si impadroniscono di nuovi gadget, della maestria con cui manovrano i tasti, i pulsanti, deputati alle più complesse operazioni, mi chiedo fino a che punto questa immane espansione delle conoscenze segnaletiche e informative vada a scapito dei faticosi sentieri della memoria e di quelli – un tempo beati – della fantasia creatrice.”
Quello che aggiungo io è che reagire solo a segnali e informazioni non è un problema solo dei ragazzi, semmai è più ampio e si persegue pure con ostinazione, nella speranza che i criceti dentro il plastico siano sempre altri: anche questo, secondo me, fa parte del mistero di cui parlavo in precedenza.
Tutto ciò detto, adesso, pensando a come noi chiediamo alla politica una via d’uscita da tutto, commento che questa richiesta è in certi casi decisamente erronea, perché impossibile per questioni di competenza. In errore ci inducono molti fattori, compresa un arte didascalica, scolastica e schematizzata quale si vuole fortemente ridurre la nostra capacità creativa elettronica che ci si ostina ad ignorare come tale rispetto a discorsi di aderenza alla realtà fondati sullo sventolare repertori tratti maliziosamente dalla letteratura della concorrenzialità.
E’ parallelamente inutile discutere sul come la vita vera avverrebbe nelle “piazze”. Lì, oggi, si passa soltanto con un cellulare attaccato ad un orecchio che, come sa bene chi stila il codice della strada, rende traslati altrove e soggetti solo a collisioni alle quali si reagisce di malomodo. Nei casi migliori si tratta, analogamente agli avatars, di individui indaffarati in tutto piuttosto che essere lì. Reale è solo conformarsi più velocemente possibile, con comunicazioni pretese immediate, a decisioni di un élite di figure indistinte ma qualificate, rinchiuse in studi e uffici. Immaginare quegli spazi pervasi di rarefazione sexy è interessante: prova la realtà di tutto ciò che, appunto, riguardando l’umano, è infatti lecito esplorare con tutti i sensi. Inevitabilmente compreso quello artistico.
Chiudo proponendo due dubbi: il ricambio generazionale apporterà fantasia creatrice a tutto ciò? Quale arte descrive e dove avviene la catarsi della fantasia creatrice del (naturale) ricambio generazionale?